Una vita come tante: tra trauma, relazioni e possibilità di rinascita
- studioliberamente
- 30 ago
- Tempo di lettura: 3 min

Il romanzo Una vita come tante di Hanya Yanagihara è una narrazione monumentale che accompagna il lettore attraverso l’arco di vite intrecciate, segnate da successi, cadute e ferite profonde. Non è solo un testo letterario: è un viaggio dentro la complessità della psiche umana, dove dolore e resilienza convivono, e dove la relazione con l’altro diventa specchio e possibilità di sopravvivenza.
Dal punto di vista psicoterapeutico, il romanzo è un laboratorio vivo, in cui emergono i grandi temi che attraversano l’adolescenza e l’età adulta: il trauma, la costruzione dell’identità, l’esperienza della colpa e della vergogna, l’amicizia come spazio di cura, la difficoltà a fidarsi dell’altro e di sé.
Trauma e sopravvivenza psichica
Il protagonista, Jude, è segnato da una storia di abusi, violenze e segreti inconfessabili. Nella prospettiva psicoanalitica, le ferite traumatiche non restano confinate al passato: invadono il presente, organizzano la vita psichica, limitano le possibilità di pensiero e di relazione.
In "Una vita come tante" questo è evidente: i traumi non metabolizzati diventano ferite sempre aperte, che Jude tenta di contenere attraverso il corpo (l’autolesionismo), attraverso il silenzio, o con una ricerca esasperata di controllo.
Come spesso accade nella clinica, il trauma diventa un “buco nero” che attira e risucchia, ma attorno al quale si sviluppano anche tentativi di simbolizzazione e narrazione. Potremmo dire che il romanzo mette in scena la difficoltà di trasformare le emozioni grezze in pensabilità, e quanto sia necessario un contenitore – relazionale e simbolico – che renda possibile questo lavoro.
Relazioni come cura e come rischio
Il gruppo di amici (Willem, JB, Malcolm) e le figure adulte che circondano Jude (Harold, Andy) rappresentano il doppio volto delle relazioni: da un lato la possibilità di sostegno e di amore, dall’altro il timore costante di essere rifiutato o tradito.
La prospettiva evolutiva ci ricorda che l’adolescente – e l’adulto ferito che porta in sé quell’adolescente – si muove sempre in bilico tra il bisogno di appartenenza e il terrore dell’abbandono. Jude, incapace di credere di essere degno di amore, trova nel legame con Willem una forma di respiro, ma la fragilità del suo mondo interno rende ogni perdita devastante.
Vergogna, colpa e identità
Uno dei nuclei più potenti del romanzo è l’esperienza della vergogna. Jude vive il proprio corpo come indegno, contaminato, e nasconde le cicatrici non solo agli altri, ma anche a sé stesso.
La vergogna, in chiave psicoanalitica, non è solo un’emozione: è una ferita identitaria che si costruisce nello sguardo dell’altro, reale o immaginato. L’impossibilità di raccontare il proprio dolore diventa allora un ulteriore trauma, che isola e impedisce di immaginare alternative.
Si potrebbe dire che Jude rimane imprigionato in un’“adolescenza infinita”, dove l’elaborazione della fragilità non riesce a tradursi in una nuova narrazione di sé.
Narrazione e possibilità di rinascita
Se il romanzo è attraversato da un dolore costante, è anche una riflessione sulla possibilità che la parola e la relazione offrano spiragli. Harold, nel suo tentativo di essere padre, rappresenta lo sforzo di “riscrivere la storia” insieme a Jude, mostrando che la funzione genitoriale e terapeutica non è eliminare il dolore, ma rendere possibile conviverci.
Qui si apre lo spazio della psicoterapia come luogo privilegiato di trasformazione: un contesto in cui i frammenti della propria esperienza possono essere accolti, mentalizzati, restituiti in forma pensabile. Come direbbe Antonino Ferro, il romanzo diventa un “sogno sognato insieme” dal paziente e dal lettore, dove il dolore prende forma, si rende visibile e quindi condivisibile.
Un romanzo come specchio della clinica
Una vita come tante non offre soluzioni né consolazioni facili. È un romanzo che, come la clinica, ci mette di fronte alla complessità delle storie umane, al peso dei traumi, alla forza e al limite dei legami.
Ci ricorda che, di fronte al dolore estremo, la cura non sta tanto nell’eliminare la ferita, ma nel costruire uno spazio in cui quella ferita possa essere narrata, riconosciuta, condivisa.
È questo lo spazio che la psicoterapia cerca di aprire: un luogo in cui le vite, anche quando sembrano “come tante”, possano diventare uniche, pensabili, vivibili.





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